Music: la terra e l'uomo
Ciò che in un artista può far presa sulla gente, quando ne incontra l'opera — perchè è nelle opere che l'autore è presente con tutto il carico d'una naturale esperienza e delle proprie ascendenze culturali — credo sia soprattutto la sua autenticità. Ed è come dire il rapporto ch'egli rivela col proprio tempo e le capacità di reagire agli stimoli più diversi; di somatizzate, insomma, e di manifestare tutto questo ed altro ancora attraverso l'emblematica bellezza delle sue immagini.
Va da sè che la bellezza potrà poi assumere una straordinaria varietà di significati, tanto da esprimere le cose più differenti, persino opposte: pur tenendosi fuori di quel cerchio che ne stringe i sensi più ovvi d'un appagamento dell'occhio o dello spirito se si contempla da un lato le qualità fisiche attribuite in genere alla gioventù, dall'altro quelle morali, più facilmente legata alla purezza d'un gesto eroico, anch'esso "bello", quando non lo si fa pressoché sinonimo d'un comportamento virtuoso, così da fondersi ormai col buono. Ed è quasi logico che finisca poi col qualificare, allo stesso modo, natura e arte: lo spettacolo d'un cielo stellato e il fuoco d'artificio. Per suscitare, subito dopo, il più alto stupore con le incalzanti visioni d'una fantasia creativa, mentre anche l'orrido finisce spesso in bellezza: come accade quando un mare in tempesta devasta e uccide; o come quando — deportato nel '44 nell'inferno di Dachau — Anton Zoran Music, uomo fatto ormai, con i suoi 35 anni, scoprì l' "allucinante grandiosità" d'un paesaggio dominato da cataste di cadaveri: visione di un'angoscia terrificante; se si vuole, da incubo: e non per nulla destinato a rimanere lungamente nel limbo della sua memoria, che è come il profondo del cuore d'ogni uomo, prima che gli fosse riuscito di sublimarne il ricordo in un suo nuovo ciclo pittorico. Ma aveva ragione Giuseppe Mazzariol a sottolineare come Music avesse vissuto "questa vicenda senz'odio". Così "Divenne un paesaggio il Lager, e i morti erano belli come fiori".
Si era ormai all'inizio degli anni '70 ed era passato un quarto di secolo da quei giorni in cui la vita dell'uomo era stata tutto uno spasimo. Il tornare a quelle immagini attraverso l'intera serie di dipinti, intitolata Non siamo gli ultimi, potè piuttosto essere per Music la vera liberazione: era finalmente riuscito a trasformare un ricordo che sapeva ormai di un'ossessione in una serie di immagini d'una bellezza che non era in realtà quella dei fiori, ma una bellezza dolorosa, a suo modo atroce. E possessiva: perchè in quel, periodo, tra il 1970 e il '72, Music non riuscì a dipingere che dei cadaveri, mentre il sentimento del tempo — con quella sua memoria portata a stemperare l'orrore con una dolcezza ch'era come il profumo acre dei sempreverdi — aveva saputo trasfigurare quei corpi accatastati, a volte ancora agonizzanti, cogliendo la delicata eleganza delle povere membra ischeletrite, sotto il diafano colore della pelle.
"Ancor oggi — aveva annotato il pittore nel suo diario — mi accompagnano gli occhi dei moribondi come centinaia di scintille pungenti che mi seguivano mentre mi facevo strada, scavalcandoli. Occhi luccicanti che in silenzio chiedevano aiuto a uno che poteva ancora camminare". Da pittore, Music aveva tutto memorizzato e registrato: senza più separarsi da quei fogli, testimoni di giorni lontani, ma profondamente incisi nella coscienza. Aveva continuato così a disegnare "come in trance, aggiungeva, attento ai "mille dettagli di questi fragili corpi! così precisi... " per dipingerli poi come dei cumuli chiari, segnati dai piccoli teschi scuri, su sfondi color ruggine, mentre una luce quasi soprannaturale veniva ad avvolgere la scena per consegnarla alla storia. Ciò che era già accaduto con la scoperta, a cavallo degli anni '50, dei più dolci paesaggi collinari umbri e senesi; e col ritorno, negli ultimi anni Sessanta, alle arse terre carsiche, ai motivi dalmati, con quei paesaggi quasi sfibrati dalle piogge e dai venti, immersi in quella loro aria secca, tagliente, persino crudele. Allo stesso modo Music tornerà a dipingere anche Venezia, rivivendo le emozioni dei suoi primi approdi, rinnovati a contatto di qualche nuovo approfondimento tematico, come nella suite dedicata alle sue cattedrali. Venezia era stata, infatti, per lui, non un luogo tra i molti che avrebbe attraversato, ma piuttosto uno dei punti di riferimento obbligato, cui si dovrà ad ogni passo guardare nel riandare all'intera vicenda dell'uomo e dell'artista.
Music era nato il 12 febbraio 1909 a Smartno, presso Gorizia, un villaggio su un colle (allora in territorio austroungarico) poco distante dalla rete del confine. Qui la gente parlava italiano, sloveno e tedesco, e le sembrava di possedere tre anime. Sotto la collina il fiume, percorsa la breve pianura, finiva tra le lagune e il mare.
Discendente da una famiglia di produttori vinicoli del Col-lio goriziano, era figlio di insegnanti. Il paesaggio tutto intorno pareva fatto soltanto di rocce e di sassi, cosparso di robusti cespugli che, di stagione in stagione, lo macchiavano di rosso, bruno e ocra, mentre all'improvviso poteva aprirsi nelle doline, le caratteristiche caverne carsiche.
Scoppia la Grande Guerra: il padre è al fronte, la famiglia profuga in Stiria. Come tutti i bambini Zoran giocava alla guerra, ma tutti avrebbero voluto fare la parte del Francese, dell'Inglese o dell'Americano.
L'Austria (se ne aveva quasi la percezione) avrebbe perso la guerra. Congedato, il padre di Music venne trasferito in Carinzia dove Zoran frequentò il liceo, mentre l'inclinazione per l'arte trovava alimento nei brevi soggiorni a Vienna dove per la prima volta accostò la pittura di Klimt e di Schiele, mentre a Praga ebbe più tardi modo di vedere le prime opere di qualche Impressionista francese.
Iscritto nel 1930 all'Accademia di Belle Arti di Zagabria, vi ebbe come insegnante Babic, il più noto pittore croato, uscito dalla scuola monacense di von Stuck, amicissimo di Guido Ca-dorin che di Music divenne suocero e gli insegnò la tecnica, non molto praticata, dell'affresco. Babic era anche un grande ammiratore della pittura spagnola e, al termine dei corsi, Music si sentì spinto a raggiungere Madrid, dove prese a frequentare il Prado, intento per giorni interi a copiar El Greco e Goya. E fu anche a Toledo, trovando nel paesaggio casti-gliano più di un'assonanza con quello dalmata della sua infanzia.
Ma a Toledo, dove il Goya delle "pitture nere" venne da lui riconosciuto subito come "il terribile accusatore (che) ha aperto la via alla pittura moderna", potè intendere per la prima volta la potenza del macabro e il senso d'un riso sardonico, l'importanza del deforme e della provocazione. Bisogna anche riconoscere che se non avesse visto il Goya "nero" difficilmente gli sarebbe poi riuscito di capire la "grandiosa e tragica bellezza" dei "campi di cadaveri" che avrebbero dato un altro senso allo stesso suo mondo. Music ne ebbe anzi coscienza, per primo.
"Mi domandavo: perchè sono qui? Di avermi fatto vivere tutto questo avrà forse un senso, uno scopo?... Ho imparato a vedere le cose in un altro modo... Non è che per reazione agli orrori abbia riscoperto la felice infanzia. I cavallini, i paesaggi dalmati, le donne c'erano anche prima. Ma dopo ho potuto vedere tutto altrimenti. Dopo le visioni di cadaveri, spogli di tutti i requisiti esterni, di tutto il superfluo, privi di maschera dell'ipocrisia, delle distinzioni di cui si coprono gli uomini e la società — credo di aver scoperto la verità, di aver capito la verità — la terribile e tragica verità che mi è stato dato di toccare.
"I paesaggi dalmati sono ritornati — hanno perso tutto quello che era di troppo e di pettegolo. Si sono aggiunti i paesaggi senesi, cadaveri spogli, martirizzati dalle intemperie. Mi ci voleva — per la pittura almeno — questa grande lezione".
La guerra civile interruppe nel '36 il costruttivo suo soggiorno spagnolo. Ripiegò quindi sulla Dalmazia, e trascorse lunghi periodi a Curzala, a contatto di quel paesaggio carsico che diventa una delle esperienze fondamentali per la determinazione del suo stile: "Un paesaggio spoglio quasi desertico. Pietrificato, si direbbe, dove spunta ogni tanto fra i muretti una minuscola oasi di terra rossa con un vigneto, oppure cespugli di lavanda viola".
Se si eccettua Donne con asinelli del 1939, l'intera mostra acquese si sviluppa attraverso la testimonianza del reduce dei campi di sterminio. Music aveva assimilato ogni esperienza, trovando nella cèzanniana bidimensionalità la chiave di una lettura antirinascimentale rincalzata dalle scelte di una tavolozza limitata ai toni essenziali in grado di riecheggiare la natura e la sua realtà, tra il sentimento e la memoria che costituiscono i due momenti di applicazione della sua espressiva figuralità. Il registro verterà tuttavia sui motivi contemplativi e sulla disposizione ad interiorizzare il processo creativo.
Liberato dagli americani alla fine di aprile del 1945, poteva dire d'essere un sopravvissuto, ma era in cattive condizioni di salute. Raggiunse dapprima Gorizia. In ottobre scende a Venezia — dove s'era fermato per la prima volta nel 1943 (un anno prima d'esser arrestato dalla Gestapo) — e, come allora, trovò appoggio dai Cadorin: Ida, la figlia che frequenta l'Accademia di Belle Arti e che diventerà sua moglie, non esita a mettergli a disposizione il proprio studio. Music lavorò subito con impegno. A Venezia contava ormai sull'appoggio di Roberto Nonveiller, intraprendente scopritore di talenti e di opere spesso di straordinaria qualità, ed è lui ad ospitarlo nel '47 alla Piccola Galleria dove aveva già tenuto, nel '44, la prima personale. Ma era in rapporti anche con Carlo Car-dazzo se espose allora tanto alla Galleria del Cavallino, a Venezia, quanto al Naviglio di Milano; poi a Roma, nel '48, all'Obelisco; a Zurigo da Chichio Haller e a Ginevra da George Moos. Tutte gallerie di prestigio. La prima sua monografia, d'altra parte, era stata tenuta a battesimo da Filippo de Pisis.
Di lui aveva scritto allora, per la mostra da Moos (1949) anche Sergio Solmi, che vide subito nella sua pittura quell'assoluta semplicità di stile ch'era "come un modo di parlare e di far gesti, come una scrittura".
Inconsapevolmente era la memoria a suggerire i motivi, analoghi a quelli dei graffiti delle caverne preistoriche, mentre i piccoli cavalli, le donne sugli asinelli con i grandi parapioggia aperti, e le chiese lagunari documentano piuttosto la loro parentela diretta con le figurazioni dell'Oriente veneziano e dalmata, confermata dalla vena lieve d'una luce ancora bizantina, ma filtrata attraverso l'esperienza moderna.
Music è, in sostanza, da vedersi proprio nel prezioso suo tessuto pittorico nel quale riprende tonalmente le più raffinate modulazioni d'una materia cui è rimasto fedele, come ad un proprio mondo interiore; con il quale d'altra parte collima la congeniale sua inclinazione verso una struttura dalle fantasiose cadenze e un'atmosfera colma di stupori. Ed è quell'aura che spesso poteva avvertirsi accanto a Zoran Music, ovunque lo si fosse incontrato: a Parigi come per le calli veneziane che attraversa per raggiungere la sua casa nel sestiere di Dorsoduro. Alto e dritto, con i suoi 79 anni, i capelli ancor grigi, gli occhi marroni; un'anima solitaria, cresciuto nell'arte senza mai badare troppo alle tendenze e alle mode.
La luminosa magia di Venezia cui aveva dedicato qualche immagine del '46, torna a farsi sentire all'inizio degli anni '80, contribuendo al rinnovarsi della sua ispirazione, attraverso una specie di mutazione formale che ha per oggetto gli scorci più vivi della città lagunare, tra le Zattere e il Canale della Giudecca di cui nel 1981-82 l'artista offre un'intera serie di opere e un'altra ha per oggetto la Punta della Dogana, con le immagini di una città che pare come rosa dall'interno, tra i palazzi e i magazzini sui canali, cui hanno fatto seguito nell'84 gli Interni di cattedrale.
Nell'occasione Music stesso ha sentito il bisogno di riandare alle prime sue esperienze lagunari, quando era stato preso dal fascino dell'interno di San Marco di cui aveva anche dipinto qualche guazzo. "Recentemente, ha annotato Music, ho ripreso il motivo cercando di trasmettere il profondo silenzio, l'atmosfera e la grandiosità dello spazio delle cattedrali". Ancora una volta i colori sciolti nei medium oleosi di estrazione minerale (la benzina da petrolio), con l'aggiunta di qualche goccia di olio di lino, l'hanno aiutato in questa nuova ricerca sull'estatica figurazione tra avvolgenti giochi di ombre e penombre, quando appena entrati si è come inghiottiti dall'ambiente dove per un momento si stenta sempre a distinguere le figure tra quelle "forme vagamente illuminate".
La vicenda di Music prosegue, dunque, nel suo sviluppo come una partita aperta. Ancor oggi egli guarda dentro di sè prima di muovere un passo, nell'attingere forme e colori dallo spazio vivo della memoria, abitata dai ricordi, dai pensieri e dai vecchi sogni di un artista solitario----------
Angelo Dragone
Cat. Zoran Music Acqui Terme Liceo Saracco 1988